La Lega agita le paure per la paura di scomparire

La Lega ha bisogno di voti e li cerca dove e come può. Alle Politiche del 2013, a livello nazionale, aveva ottenuto il 4,08%, sul filo dello sbarramento per ottenere rappresentanza al Parlamento europeo dove, nel 2009, era entrata con il 10,2% dei consensi.

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Per Matteo Salvini, in possesso di sondaggi che accreditano il movimento al 5,3%, non c’è problema. Anzi, il neo-segretario si attende al Nord un risultato del 13% ben superiore al deludente 9,2% spuntato solo un anno fa tra Piemonte, Lombardia e Veneto.

E’ una battaglia per la sopravvivenza quella ingaggiata dalla Lega che ancora deve trovare un equilibrio tra il suo pretendersi di lotta e il suo essere di governo. Matteo Salvini sfrutta ogni occasione per incendiare la piazza, promette referendum su tutto, dal campo rom all’euro. Roberto Maroni, e con lui Luca Zaia e Roberto Cota, i “governatori”, devono viceversa amministrare, rappresentanti “istituzionali” di uno Stato che ai propri elettori indicano come “nemico”. Molto dovendo dunque concedere alla demagogia da comizio elettorale che sempre più spesso tentano di trasformare in atto legislativo.

Di volta in volta, la Lega di governo si schiaccia su quella di lotta e viceversa. Lo si è apprezzato nei commenti che hanno seguito il referendum svizzero «contro l’immigrazione di massa». Maroni si è trovato, suo malgrado, a dover tutelare gli interessi di 60mila “frontalieri” presenti in territori che, da sempre, sono il bacino elettorale della Lega. L’unico modo per farlo è rinegoziare con la Svizzera il trattato bilaterale che li riguarda: è un trattato tra Stati, ma si può rivendicare, come con buone ragioni fa Maroni, di poter partecipare al negoziato nel suo ruolo “istituzionale”. Poi però bisogna anche “fare l’ammuina” ed ecco il Presidente rilanciare il “verbo” del segretario: «Anche da noi si faccia un referendum simile a quello che si è fatto in Svizzera». Maroni sa perfettamente che non si possono sottoporre a referendum i trattati internazionali e che proprio per quel referendum la Svizzera rischia la “ghigliottina” dell’Unione. Ma lo “trucca” come lo strumento per dare priorità al lavoro dei cittadini residenti di fronte a «clandestini extracomunitari che vengono in Italia senza permesso di lavoro». E Salvini spiega che «gli svizzeri difendono i loro interessi e fanno bene, come la Francia espelle i rom, gli inglesi fanno pagare la sanità agli stranieri e l’Australia allontana i barboni».

Un guazzabuglio di paure da agitare di fronte agli elettori nel nome dei nuovi alleati della Lega nella imminente battaglia anti-europea: il Front National di Marine Le Pen, il Fpoe austriaco, il Vlaams Belang belga, i democratici svedesi l’Ukip inglese, tutti accomunati nella difesa dei propri interessi locali e ben felici, se solo lo potessero, di sigillare ai lavoratori italiani anche le frontiere di Mentone e del Brennero. Un passo indietro di vent’anni che la Svizzera ha già mosso. Così che la mossa più brillante che Maroni ha partorito rientrando nella grisaglia del presidente è quella di chiedere l’istituzione lungo la fascia di confine una «zona franca per abbassare la pressione fiscale per le imprese che lì soffrono la concorrenza del Canton Ticino». La stessa che promette Cappellacci ai suoi elettori sardi e che reclama la Calabria. Altre “piccole patrie” ed altri concorrenti.

(la Repubblica Milano, 12 febbraio 2014)


Lega di lotta e di governo

In molti si interrogano sull’esito del rapporto, necessariamente “competitivo”, del Pd guidato da Matteo Renzi con il Governo “di ristrette intese” guidato da Enrico Letta. Non altrettanti si pongono la stessa domanda nel ridefinire le relazioni tra il neo-segretario del Carroccio, Matteo Salvini, e i governi di centrodestra “a trazione leghista” di Piemonte, Lombardia e Veneto.

Matteo Salvini con Umberto Bossi

Matteo Salvini con Umberto Bossi

Perché sarà pur vero, come ha dichiarato Roberto Maroni, che «con lui comincia il futuro della Lega» che però si annuncia nell’obiettivo: «Bisogna smontare l’unione sovietica europea». A partire dalle regioni più integrate con il sistema europeo e fra le più determinate (almeno a parole) a sviluppare ulteriormente queste relazioni.

Salvini rimprovera al movimento di essersi troppo occupato di amministrazione negli ultimi tempi e ritiene che «adesso è arrivato il momento di condurre le nostre battaglie ventre a terra». Perché «è finito il tempo delle mediazioni». Che vuol dire, per esempio «stare sul Brennero con gli agricoltori» (dove stava, incongruamente, anche il ministro Di Girolamo) e, supponiamo, con i trattori che assediano il Pirellone governato anche dalla Lega, o con “I forconi” per intercettarne il voto di protesta in vista delle Europee quando si misurerà la reale, o residua, forza della Lega. Poi c’è l’abolizione dei Prefetti (ma non delle Province) l’abrogazione delle leggi Fornero (ma sulle pensioni, dopo Dini, era stato Maroni a costruire “lo scalone” e sul lavoro si lancia un referendum sui poteri dei sindacati «che sono un ostacolo per le imprese e i lavoratori»), il no alle privatizzazioni…

Chissà poi se Salvini si rende conto che la sentenza anti-Porcellum della Corte costituzionale, applaudita anche da Roberto Calderoli, potrebbe rimettere in discussione il premio di maggioranza attribuito ai governatori. Perché Maroni ha vinto in Lombardia con il 42,8% dei voti, Cota in Piemonte con il 47,3 e il solo Zaia ha ottenuto un consenso “maggioritario”: 60,1% in Veneto. Per tacere, nell’impietoso paragone delle primarie del Pd,  del “plebiscito” di 8.162 voti che l’ha portato alla guida del movimento: il 47% degli iscritti alle liste (17.047, ma hanno votato in 10.200, l’82% per il neo segretario), ma solo lo 0,58% di chi, nel 2013, ha votato Lega.

Salvini offre comunque all’elettorato il profilo di una Lega di lotta e di governo che potrebbe però diventare molto ingombrante per chi, per il Carroccio, sta al governo anche se delle regioni. Conquistato con molte promesse di cui lo stesso Salvini potrebbe chiedere oggi conto. Per esempio sul taglio ai costi della politica che, al capitolo vitalizi e compensi ai dirigenti, si è già impantanato in Lombardia, è stato “truccato” in Veneto e ha alimentato l’inchiesta su 42 consiglieri regionali, presidente Cota compreso, in Piemonte. E’ la Lega di governo, questa. Quella di lotta non può far finta di non saperlo. E in questo, l’Europa e l’Euro non c’entrano proprio nulla.


Firmo o non firmo?

Gabriele Albertini di fronte ala caso delle 30 firme sospette nelle sue liste scoperte dalla Procura di Cremona ha dimostrato il proprio tradizionale aplomb: «Qualora dovessero ravvisarsi responsabilità di ogni tipo, saremo inflessibili con tutti coloro che dovessero essere coinvolti  in questa vicenda». Confortato anche dal fatto che le firme contestate erano 30 su 641 e ne bastavano 500 per formalizzare le candidature.

Roberto Formigoni e le "sue" firme false

Roberto Formigoni e le “sue” firme false

La Destra, che ha visto cancellare la sua lista dal collegio elettorale 3 della Lombardia, aveva poco da commentare visto che nello studio di un avvocato milanese era stata scoperta una vera e propria centrale di falsificazione: 83 timbri falsi di giudici di pace di Comuni lombardi, liguri, piemontesi e molisani, nonché di Roma, timbri dei municipi di Pavia, Monza e del tribunale di Milano, decine di certificati elettorali ed elenchi di sottoscrizione in parte autenticati in bianco, alcuni dei quali con il logo di partiti.

La Lega, di fronte all’indagine aperta dalla Procura di Monza sulla base delle «osservazioni» dei rappresentanti radicali della lista Amnistia Giustizia e Libertà, ha evocato il «complotto» , con Matteo Salvini che parla di «insulti e calunnie per tentare di non farci vincere». Già, perché in questo caso le firme “sospette” sarebbero 900 su 1.200 e, se questo fosse accertato, la lista per Maroni Presidente non avrebbe potuto essere neanche presentata. Se ne occuperà l’Ufficio centrale elettorale della Corte d’Appello di Milano e c’è da sperare che l’autodifesa del consigliere provinciale leghista Giuliano Beretta, già indagato per truffa per questa vicenda dalla procura monzese, trovi conferma nei fatti.

Perché non serve ricorrere a sondaggi “segreti” per sapere che, in Lombardia, la battaglia tra Ambrosoli e Maroni si combatte sul filo delle centinaia di voti.

Sarà allora utile citare il precedente del Piemonte. Nel 2010, Roberto Cota si assicurò la vittoria con 1.043.318 voti contro1.033.946 di Mercedes Bresso: una differenza di 9.372 schede. Ma della coalizione che sosteneva Cota partecipavano anche i Pensionati di Michele Giovine premiato da 27.797 preferenze. Peccato che quella lista non potesse presentarla e che per questo sia stato condannato in primo e secondo grado e costretto alle dimissioni da consigliere regionale. Non è naturalmente detto che quei 27mila in assenza della lista di Giovine si sarebbero astenuti, ma il dubbio che, senza quell’inganno, la Bresso avrebbe avuto qualche possibilità in più di vincere è egualmente legittimo.

La cosa grave è che, malgrado le sentenze, il risultato delle elezioni piemontesi sia comunque restato quello acquisito complice una sentenza della Corte costituzionale che assegna la materia al Tribunale civile dal quale non è ragionevole attendersi sentenze che possano realmente interferire con i risultati elettorali.

Qui, come nel caso delle firme false per Formigoni, scoperto non per caso dagli stessi Radicali, si misura tutta la distanza che separa i tempi della giustizia da quelli della politica e dell’amministrazione, così che il giudizio sull’ormai ex Governatore arriverà quando altri governeranno la Regione.

Un esempio di come il delitto, in questo Paese, paghi, malgrado tutte le chiacchere sulla certezza della pena. Con l’aggravante che qui si gioca con i fondamenti della democrazia rappresentativa e il solo sospetto che il voto possa essere truccato, getta un irrecuperabile discredito sulle istituzioni.

Di questo si dovrebbero preoccupare i leghisti, non delle macchine del fango messe in moto a loro danno, perché con queste pratiche ogni eventuale vittoria può essere mutilata e «il popolo sovrano» truffato.  Ma anche questo è un segno di continuità con la tradizione che Formigoni ha imposto alla Regione, un’altra delle sue «eccellenze».


La “macro-corruzione”

Se, il 26 febbraio, Roberto Maroni si “scoprirà” Governatore della Lombardia, dovrà cominciare a dare dignità istituzionale alla sua promessa di macro-regione del Nord. “Istituzionale” significa che si dovrà, al minimo, stendere e far approvare dalle Camere una legge. Il che non è affatto scontato, ed anzi potrebbe segnare una prima crepa nella rinata coalizione Lega-Pdl.

Roberto Cota con Roberto Maroni

Roberto Cota con Roberto Maroni

C’è, naturalmente, il patto solennemente firmato da Maroni, in attesa di investitura, con i presidenti di Friuli, Veneto e Piemonte. Ma sulla loro reale possibilità di onorare quell’accordo grava il futuro delle loro stesse giunte, e non solo per le recenti minacce di Berlusconi che si dice pronto a farle cadere se la Lega gli creasse troppi problemi.  Potrebbero cadere da sole, in particolare quella del Piemonte guidata da Roberto Cota che sta scalando la classifica della Regione più indagata d’Italia dopo la Calabria e la Lombardia di Roberto Formigoni.

Maroni denuncia il «complotto mediatico-giudiziario» e la «giustizia a orologeria», ma intanto, Massimo Giordano, ex sindaco di Novara e assessore leghista allo Sviluppo economico del Piemonte è indagato per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Lui, con un gesto poco frequente da parte della nomenklatura politica, aveva immediatamente rimesso il  suo mandato, ma Cota ha voluto confermarglielo.

Giordano è l’ultimo indagato in una serie che si è aperta con il clamoroso arresto dell’assessore alla Sanità Caterina Ferrero, accusata di turbativa d’asta e abuso d’ufficio e che, per gli inquirenti, «agiva per motivazioni politiche personali e non per l’interesse della pubblica amministrazione».

Il successo elettorale di Cota era stato assicurato anche dalla lista Pensionati guidata da Michele Giovine che si era guadagnato 27mila preferenze ma la cui lista era stata presentata con l’abituale corredo di firme false come è stato sancito in una sentenza confermata in appello che gli ha meritato la sospensione dall’incarico di consigliere nel cui ruolo è subentrata, forte di 98 preferenze, la sua fidanzata.

C’è poi  l’assessore al Commercio William Casoni, accusato di turbativa d’asta (ma che si dichiara innocente), perché coinvolto in una inchiesta sul business dei bolli d’auto che, a novembre, ha portato in carcere 15 persone.

Infine, provvisoriamente, le voci sugli esiti dell’inchiesta sui rimborsi facili in Regione Piemonte che vorrebbero prossimamente indagati  56 consiglieri oltre ai quattro che già lo sono con perfetta simmetria maggioranza-opposizione: Andrea Stara (Pd), Eleonora Artesio, (Federazione della Sinistra), Maurizio Lupi (Verdi Verdi) e l’ineffabile Michele Giovine.

Così che l’erigendo asse Lombardia-Piemonte si potrebbe davvero dire costruito nel segno della continuità. Almeno dal punto di vista del codice penale.


L’Impero del Nord

La comparsa “a tradimento” del «Berlusconi Presidente» sul simbolo elettorale del Pdl, ha innescato un surreale dibattito sul tema «presidente» di cosa? Del Pdl, obietta Maroni interpretando a proprio favore il contenuto dell’accordo faticosamente siglato col Cavaliere che prevedeva la sua rinuncia alla premiership. Della coalizione, suggeriscono gli azzurri, egualmente timorosi di rimettere in discussione il patto sul quale fondano la propria rivincita elettorale. Entrambi dimentichi che quando e se, in caso di vittoria, si dovesse “suggerire” al Presidente Napolitano il nome del Presidente del Consiglio, sarebbe ragionevolmente quello di chi ha preso più voti all’interno della coalizione ed è facile previsione che Berlusconi incassi più consensi di Maroni che peraltro non è nemmeno candidato al Parlamento nazionale.

Roberto Maroni

Roberto Maroni

La vicenda ricorda le dispute che si accendevano nel Sacro Romano Impero dove erano tutti Principi, ma fra loro diversamente «elettori», «abati», «vescovi», «duchi», «margravi», «langravi»… E che, prima di eleggere il “vero” imperatore (che poi, generalmente, muoveva guerra al Papa, ma questo è un dettaglio), regolavano i dissidi con la, spesso nient’affatto pacifica, «annessione», regolata dalla Riforma del 1495 (Reichsreform) in base alla quale uno stato imperiale se ne poteva annettere un altro, ottenendone integralmente titoli nobiliari e poteri. Ed erano perfino meno i principi tedeschi (solo 11) dei “principi” coalizzati attorno al, forse, imperatore Berlusconi.

Analogie che si confermano leggendo, nell’intervista che Roberto Maroni ha concesso al Corriere della Sera che «un minuto dopo il mio insediamento (alla presidenza della Lombardia, ndr.), insieme con i presidenti Roberto Cota, Luca Zaia e, se vuole, Renzo Tondo, costituiremo un nuovo soggetto istituzionale di rappresentanza dell’Euroregione che si batterà con Roma in tutte le circostanze in cui occorrerà farlo».

A prescindere che «un soggetto istituzionale» si crea con una legge fors’anche di rilievo costituzionale, visto che si gioca con gli articoli 5, 52 e 54, e che, se si trattasse solo di un coordinamento politico, non si capisce cosa abbia impedito alla Lega di promuoverlo quando era al governo del Paese, se Maroni pensasse davvero di creare così la sua Prussia, dovrà mettere in conto qualche difficoltà. Per esempio, sconfiggere i francesi, gli svedesi, i polacchi e i russi,  muovere guerra all’Austria (alleandosi con l’Italia, guarda un po’), farsi protestante e promuovere l’immigrazione degli ugonotti.

Un vasto programma, si direbbe con De Gaulle, soprattutto perché Cota, Zaia e Tondo non hanno esattamente il profilo degli Junker.


Devolution modello Formigoni

Roberto Formigoni cerca di sottrarsi ai “tagliandi” che la Lega vorrebbe imporgli per conservargli il posto di Governatore rilanciando su quello crede essere l’oggetto del desiderio dei suoi riottosi alleati, il Federalismo. Non potendo ignorare i fallimenti succedutisi sulle parole d’ordine della secessione, della devolution e perfino del “mite” federalismo fiscale inventato da Roberto Calderoli, recupera da polverosi cassetti la macroregione del Nord, immaginando per Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia un futuro bavarese. E postulando, evidentemente, la nascita di una apposita Cdu di cui lui potrebbe essere il Franz Joseph Strauss equivalente.

Bossi e Formigoni agli inizi del Secolo

L’uomo, come è noto, pensa in grande: «La regione del Nord dovrà nascere “bruciando” i vecchi confini amministrativi. Abbiamo (pluralia majestatis, ndr.) già steso uno schema di lavoro sui singoli punti» che sarà lanciato a Rimini in occasione del meeting di Rimini.

Malgrado l’asserito interesse di Roberto Cota, Luca Zaia e Vasco Errani, il principale interlocutore di Formigoni, il segretario della Lega Nord Roberto Maroni, non dimostra alcun entusiasmo e a Rodolfo Sala di Repubblica dichiara: «In realtà lui pensa a una maxi-Lombardia che si ruba un pezzo di Veneto e di Piemonte. Non va bene, non ci interessa, è sbagliato».

Maroni si è troppo appassionato alla parola d’ordine che ha lanciato ai suoi militanti per considerare altro che non sia «Prima il Nord», ma quando Formigoni parla di uno schema, parla di un progetto già ben strutturato messo a punto nel lontano 2000. Fu allora che Formigoni tentò davvero di trasformarsi in Strauss portando la Regione a un voto referendario sul suo nuovo statuto federalista. Poi non osò sfidare davvero Bossi, Berlusconi e Fini rinunciando a una leadership sul centrodestra che, da allora, fu solo annunciata.

Dodici anni fa Formigoni giocò spericolatamente con una delle tante anomalie della democrazia italiana che l’ambasciatore Sergio Romano sul Corriere della Sera chiarì con l’abituale chiarezza: « L’elezione diretta dei presidenti regionali ha cambiato di fatto la Costituzione. Esistono ormai, virtualmente, una sovranità suddivisa e una situazione in cui i «governatori» hanno oggi, paradossalmente, un mandato popolare più esplicito e quantificabile di quello del presidente del Consiglio. Ma, anziché cominciare dall’inizio e dividere anzitutto le competenze fra governo centrale e governi regionali, siamo partiti dalla fine. Abbiamo creato il potere prima di definirne i contenuti». Con queste premesse, forte del consenso popolare che ha sempre avuto, Formigoni era pronto a chiedere ai cittadini lombardi se fossero d’accordo che la Regione intraprendesse «le iniziative istituzionali necessarie» per ottenere dallo Stato il trasferimento delle funzioni «in materia di sanità, istruzione, formazione professionale e polizia locale».

Allora Formigoni affermava polemicamente:  «Chiediamo solo di avere gli stessi poteri  che, da 40 anni, detengono le Regioni a statuto speciale». E Roberto Maroni, allora numero due del Carroccio dichiarava: «I patti sono stati rispettati, ora dobbiamo accelerare».

Poi venne la sventurata modifica dell’articolo 117 della Costituzione, le minacce dei “sudisti” di Alleanza nazionale, le perplessità di Ghigo (Piemonte) e Galan (Veneto),  le improvvisazioni sul federalismo, e il progettato nuovo statuto della Regione Lombardia finì in un cassetto dal quale pochi giorni fa è miracolosamente saltato fuori in una versione “estesa” nella quale confluiscono anche fiscalità, finanza, trasporti ed energia.

Formigoni non fa però i conti con un dato che appare evidente nell’evolversi della crisi mondiale: le autonomie europee, con la possibile eccezione di quelle inglesi, ma la drammatica conferma di quelle spagnole non sembrano reggere la sfida economica che le si impone. Lo fa certo la Baviera ma all’interno di un vero stato federale che nasce come tale e non ne deve sopportare la trasformazione da stato unitario.

La Regione avrebbe motivo di occuparsi anziché di grandi costruzioni istituzionali, di problemi più modesti, prossimi e concreti. Entro il 18 ottobre dovrà presentare il suo programma di “riassetto” delle province. Come modulerà il suo progetto di devolution bavarese Formigoni quando la Lega gli vorrà fare “il tagliando” sull’amata provincia di Varese?


Nasce a Zanica il fisco immaginario

Che la disobbedienza fiscale fosse l’ultima trovata elettorale della Lega vi erano pochi dubbi. Chi ne attendesse la conferma l’ha trovata nelle esplicite parole di Roberto Maroni a Zanica nel corso del Lega Unita Day: «Non è un incitamento alla rivolta, ma un’iniziativa politica, la più importante degli ultimi anni da parte del nostro movimento».

Roberto Maroni e Umberto Bossi al raduno di Zanica

Iniziativa assolutamente legittima anche se lo slogan «i sindaci guerrieri contro il pzzo di Stato» si inserisce perfettamente nel solco delle sventuarate dichiarazione di Beppe Grillo: che un ex ministro dell’Interno che ha fondato la propria credibilità sulla lotta alle mafie parli di pizzo riferendosi alle tasse molto dice di quale sia la qualità del pensiero politico del suo movimento.

Pur negli stessi confini della propaganda elettorale ci si poteva però aspettare una proposta minimamente più articolata che non lo slogan «licenziare Equitalia per licenziare il governo Monti» che si traduce nelle opzioni di modificare il patto di stabilità (come?), fissare a zero l’aliquota Imu per renderla legalmente inesigibile o ricorrere al giudice di pace (che, notoriamente, non ha alcuna competenza in materia).

Resta la proposta di rescindere da parte delle amministrazioni comunali il contratto di riscossione con Equitalia prendendo a modello i cinque comuni che già l’hanno fatto per estenderlo a una platea di oltre 8mila diverse amministrazioni. Il fedelissimo Roberto Cota è pronto ad annunciare che il Piemonte farà proprio così, mentre a Palazzo Marino il consigliere Alessandro Morelli ha presentato una mozione per impegnare Milano a rescindere il contratto di riscossione con Equitalia.

Il tutto senza tenere in alcuna considerazione i costi di esazione che si trasferirebbero dall’amministrazione centrale a quella locale e ignorando gli sforzi che la stessa Equitalia – come l’Inps e Bankitalia su altri fronti – stanno facendo nella direzione esattamente opposta proprio per contenere le proprie spese di gestione.

Politiche che puntino a sviluppare giustizia fiscale e sociale anche in contrasto con quelle governative non si improvvisano a una settimana dalle elezioni. Ma la Lega ha già fissato un nuovo appuntamento con il suo fisco immaginario: il 25 maggio a Seriate a un giorno di distanza dalla mobilitazione veneziana dell’Associazione dei comuni italiani. Quando l’Iva trimestrale sarà già pagata, pronti i conteggi Irpef e l’Imu incombente


La cinghia di trasmissione leninista

Troppo spesso si è definita la Lega come l’ultimo partito leninista attivo in Italia. Di questo quadro interpretativo faceva parte integrante il Sin.Pa, il sindacato padano che del partito era, come tradizione vorrebbe, la cinghia di trasmissione con le masse operaie, senza subordinarne gli strumenti ma facendone l’organizzazione d’elezione attraverso la quale il partito potesse rappresentare le politiche e gli orientamenti che nella lotta sindacale si esprimevano.

Nel caso del Sin.Pa sembra evidente che stia avvenendo l’esatto contrario giacché la capacità del suo segretario generale, Rosy Mauro, di imprimere un orientamento politico alla segreteria del Carroccio sembra oggi molto modesta.

Ma, giustamente, il Sin.Pa rivendica la propria autonomia, come farebbe ogni vero sindacato di fronte alle ironie di Matteo Salvini che una intervista a Radio 24 ha dichiarato: «Ho provato a lavorarci più di una volta ma, onestamente, non ho mai trovato grandi riscontri. In futuro potrà essere condotto in maniera più efficace, visto che, purtroppo, non mi sembra che abbia centinaia di migliaia di iscritti».

Di cosa parlavano allora i suoi colleghi, Roberto Cota e Lorenzo Bodega, che in una interpellanza parlamentare accreditavano «oltre 350mila iscritti»? Lo facevano per contestare la sentenza in base alla quale il Tar aveva negato il posto al Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro attribuito al Sin.Pa nel 2005 perché «non abbastanza rappresentativo a livello nazionale», decisione che aveva preso accogliendo un ricorso della Cgil.

Una sentenza che anticipava l’attuale giudizio di Salvini. Che trova però un fiero oppositore in Alessandro Gemme membro della segreteria del Sin.Pa che rappresentò proprio in quella breve stagione al Cnel: «Salvini pensi alla Lega Nord. La leadership del Sin.Pa non è in discussione e non lo riguarda». Fin qui, siamo alla rivendicazione d’autonomia, ma poi Gemme aggiunge: «Purtroppo, a dispetto di quanto sostenuto da Matteo Salvini, dobbiamo riscontrare la mancanza di aiuto proprio da parte di molti leghisti e tra questi anche dello stesso Salvini, nella sua qualità di consigliere comunale di Milano: nei rapporti con le ex municipalizzate i nostri iscritti hanno subito e subiscono diverse discriminazioni tanto che non si contano le cause ancora attive nei tribunali». E invece sarebbe bene contarle, una per una, oltre che per denunciare le attività antisindacali della giunta Pisapia (ma forse della giunta Moratti della quale la Lega faceva parte), soprattutto per dare finalmente una dimensione reale al sindacato padano. Del quale, allo stato, si sa per certo solo che ha tre dipendenti dei quali una è la nipote di Rosy Mauro. Già perché nelle perquisizioni della Guardia di Finanza non è stata neanche trovata la documentazione sulle trattenute sindacali (che se non esistesse davvero configurerebbe un’altra serie di reati). Forse perché, come la Mauro e Gemma hanno denunciato a più riprese, le Poste e la Fiat ne negano la riscossione? E’ per questo Rosy Mauro era costretta a finanziare personalmente le attività sindacali? Tutti elementi da chiarire, quanto meno per non dare indirettamente ragione a Francesco Belsito che stimava in non più di settemila gli aderenti al sindacato. Comunque la si metta, forse la cinghia di trasmissione è proprio da cambiare come direbbe un meccanico non necessariamente leninista


Rosy Mauro, “la badata”

Più che “badante” la si direbbe “badata”. Rosy Mauro non è stata un buon investimento per la Lega, certamente non una “macchina da voti”. Dopo essersi guadagnata, nel 1990, l’elezione a segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo, solo una volta ha dovuto conquistarsi la fiducia degli elettori . E’ stato quando si è assicurata un posto nel Consiglio comunale di Milano, trentesima fra i 36 eletti  della Lega con 381 voti di preferenza sui 308.562 (40,9%) che ottenne il Carroccio guidato da Marco Formentini.

Lavoratori del Sin.Pa

A scorrere le cronache di allora a parte la mutevole grafia – Rosa, Rosi, Rosy – la sindacalista lumbarda e presidente della Commissione Lavoro non brilla per iniziativa. Ma, evidentemente, si fa amare perché dopo averle affidato nel 1999 il sindacato che avrebbe dovuto sostituirsi a Cgil, Cisl e Uil negli auspici di Umberto Bossi, nel 2005 la si candida in Regione, ma nel listino bloccato a elezione garantita ,e così accade anche nel 2008 dove è tra i “nominati” del Senato e il 6 maggio le sono bastati 161 voti per farsi eleggere vicepresidente.

Certo i voti, come le azioni, non si contano, si pesano. E a pesare sulla carriera di Rosy Mauro c’è stato certamente l’incarico di Segretario generale del Sin.pa, il sindacato padano che conterebbe «oltre 350mila iscritti» nella risposta a una interpellanza parlamentare del 2006 di Roberto Cota e Lorenzo Bodega. Una massa di manovra imponente  se non fosse che la stessa segretaria in una recente intervista ne ha dichiarati 250mila. Centomila si sono persi per strada, ma restano molti di più di quanti non siano gli iscritti secondo l’infido Belsito intercettato nelle sue telefonate.

Certo è che nel 2005 il Sin.Pa conquista un posto al Cnel senza averne diritto come conferma il Tar dopo un esposto della Cgil perché il giudice «non lo ritiene rappresentativo a livello nazionale». Ma il sindacato è forse una potenza locale? Certo, il Sin.Pa non partecipa alle elezioni delle Rsu del pubblico impiego ma non perché “troppo romane” , ma perché come per i consigli delle Camere di Commercio le norme impongono la presentazione della lista degli iscritti. Si dà per certo che alla Sea gli iscritti siano una decina su quasi 5mila dipendenti, 7 i lavoratori iscritti, e licenziati, dalla “Milano Servizi” di Dolcè, all’Atm di iscritti ce ne sarebbero ma non hanno mai convocato neanche un’assemblea eppure  in 11, narrano le cronache, solo due mesi fa hanno protestato sotto la Regione Lombardia contro i tagli. Ma alle Poste, per non dire di molte altre aziende stando alle denunce (politiche non al Tribunale del Lavoro), non trattengono le quote sindacali destinate al Sin.Pa. Quanto valgano lo stabilirà adesso la Guardia di Finanza che ne ha già sequestrato idocumenti nella sede centrale e interpellato i tre dipendenti fra i quali, pare, la nipote di Rosy.

Resta la speranza di vedere i supporter  del segretario generale al raduno annuale del sindacato, la tradizionale «battellata» sul Lago Maggiore, sempre che “ l’autofinanziamento” la renda ancora possibile.


Per Topolinia imboccare viale Padania

Quel «disgraziati» indirizzato da Umberto Bossi alla ventina di contestatori raccoltisi per protestare contro l’ennesima inaugurazione padana è uno scatto di rabbia opposto all’ironia. Perché nello sparuto gruppo dei «tricoloristi» che ha fronteggiato la cinquantina di padani raccoltisi attorno alle bandiere sotto lo sguardo del senatùr, di Roberto Cota, Andrea Gibelli e del Sindaco Massimo Olivares per l’intitolazione della nuova tangenziale di Mercallo con Casone (6.055 abitanti, in lingua Marcàll cunt al Casón), spiccava un cartello artigianale sul quale si leggeva: «Viva Bossi e Paperino, ma anche Minni e Topolino». Sarà anche vero, come ha poi comiziato Umberto Bossi, che «l’Italia la vogliono solo i pochi rimasti», ma almeno i pochi rimasti hanno il dono dell’ironia che coniugano con quella che dovrebbe essere un’evidenza: la Padania non esiste, è un’invenzione proprio come Topolinia e Paperopoli.

Umberto Bossi inaugura viale Padania

Fino agli anni Settanta, infatti, “Padania” è stato nient’altro che un sinonimo geografico e leggere sulla targa di viale Padania, la specificazione «antico nome geografico» è già un’altra invenzione. Certo, non si poteva pretendere che ci si uniformasse alla prosa immaginifica di Gianni Brera che faceva corrispondere quell’area dagli incerti confini con l’antica (quella sì) Gallia cis e traspadana. Ci sono di mezzo i romani e non sarebbe stato facile spiegarlo a chi da vent’anni si prepara a conquistare la Capitale con le armi dei bergamaschi..

Come conferma anche lo studioso e ideologo leghista Gilberto Oneto, intitolando uno dei suoi libri “L’invenzione della Padania”, la “nazione” evocata dal Carroccio esiste solo in politica, non in geografia. E i suoi padri non sono i celti ma, in anni molto più recenti, i comunisti: come Guido Fanti, presidente dell’Emilia Romagna che, nel 1975, immaginò una macroregione del Nord che indicò come Padania. Poi ci furono la Fondazione Agnelli, il Censis, Roberto Miglio, e i tanti osservatori internazionali delle convulsioni politiche italiane. Certo, non si può fare di un’indicazione stradale una lunga nota a piè di pagina E allora diventa comodo sfidare il ridicolo e usare «antico nome geografico». Per finire dritti a Topolinia e lì trovare come ammonisce Bossi quelle «forze potentissime che non vogliono l’Italia, ma la Padania». Intesa, naturalmente, come viale.