La Lega agita le paure per la paura di scomparire

La Lega ha bisogno di voti e li cerca dove e come può. Alle Politiche del 2013, a livello nazionale, aveva ottenuto il 4,08%, sul filo dello sbarramento per ottenere rappresentanza al Parlamento europeo dove, nel 2009, era entrata con il 10,2% dei consensi.

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Per Matteo Salvini, in possesso di sondaggi che accreditano il movimento al 5,3%, non c’è problema. Anzi, il neo-segretario si attende al Nord un risultato del 13% ben superiore al deludente 9,2% spuntato solo un anno fa tra Piemonte, Lombardia e Veneto.

E’ una battaglia per la sopravvivenza quella ingaggiata dalla Lega che ancora deve trovare un equilibrio tra il suo pretendersi di lotta e il suo essere di governo. Matteo Salvini sfrutta ogni occasione per incendiare la piazza, promette referendum su tutto, dal campo rom all’euro. Roberto Maroni, e con lui Luca Zaia e Roberto Cota, i “governatori”, devono viceversa amministrare, rappresentanti “istituzionali” di uno Stato che ai propri elettori indicano come “nemico”. Molto dovendo dunque concedere alla demagogia da comizio elettorale che sempre più spesso tentano di trasformare in atto legislativo.

Di volta in volta, la Lega di governo si schiaccia su quella di lotta e viceversa. Lo si è apprezzato nei commenti che hanno seguito il referendum svizzero «contro l’immigrazione di massa». Maroni si è trovato, suo malgrado, a dover tutelare gli interessi di 60mila “frontalieri” presenti in territori che, da sempre, sono il bacino elettorale della Lega. L’unico modo per farlo è rinegoziare con la Svizzera il trattato bilaterale che li riguarda: è un trattato tra Stati, ma si può rivendicare, come con buone ragioni fa Maroni, di poter partecipare al negoziato nel suo ruolo “istituzionale”. Poi però bisogna anche “fare l’ammuina” ed ecco il Presidente rilanciare il “verbo” del segretario: «Anche da noi si faccia un referendum simile a quello che si è fatto in Svizzera». Maroni sa perfettamente che non si possono sottoporre a referendum i trattati internazionali e che proprio per quel referendum la Svizzera rischia la “ghigliottina” dell’Unione. Ma lo “trucca” come lo strumento per dare priorità al lavoro dei cittadini residenti di fronte a «clandestini extracomunitari che vengono in Italia senza permesso di lavoro». E Salvini spiega che «gli svizzeri difendono i loro interessi e fanno bene, come la Francia espelle i rom, gli inglesi fanno pagare la sanità agli stranieri e l’Australia allontana i barboni».

Un guazzabuglio di paure da agitare di fronte agli elettori nel nome dei nuovi alleati della Lega nella imminente battaglia anti-europea: il Front National di Marine Le Pen, il Fpoe austriaco, il Vlaams Belang belga, i democratici svedesi l’Ukip inglese, tutti accomunati nella difesa dei propri interessi locali e ben felici, se solo lo potessero, di sigillare ai lavoratori italiani anche le frontiere di Mentone e del Brennero. Un passo indietro di vent’anni che la Svizzera ha già mosso. Così che la mossa più brillante che Maroni ha partorito rientrando nella grisaglia del presidente è quella di chiedere l’istituzione lungo la fascia di confine una «zona franca per abbassare la pressione fiscale per le imprese che lì soffrono la concorrenza del Canton Ticino». La stessa che promette Cappellacci ai suoi elettori sardi e che reclama la Calabria. Altre “piccole patrie” ed altri concorrenti.

(la Repubblica Milano, 12 febbraio 2014)



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