Nuove frontiere

Roberto Maroni ha annunciato che chiederà al Governo di sospendere in trattato di Shenghen nei sei mesi di Expo 2015. E’ già successo che venisse sospeso per brevi peridi di fronte a particolari emergenze, ma mai si è dato che lo fosse per lunghi periodi.

scenghenMaroni, che nella Lega salviniana fa la parte del moderato, avanza comunque la sua proposta sapendo perfettamente che Matteo Salvini, esattamente come Marine Le Pen, il trattato di Shenghen lo vuole abrogato e che nel suo movimento che molto frequenta l’iperbole a scopo elettorale, c’è chi pensa di reindrodurre la pena di morte (Calderoli ancora in continuità con la Le Pen) e chi (Paolo Grimoldi) nell’aula del Parlamento accusa il Governo di «complicità coi terroristi».

Che consistenza possa avere questo dibattito sembra scontato avendo i ministri Gentiloni e Alfano già chiarito che, semmai il trattato dovesse essere rivisto, lo sarebbe per quanto riguarda la vigilanza sui confini extraeuropei non certo su quelli interni dell’Unione della quale la libertà di movimento resta uno dei pilastri.

Non c’è poi chi non colga la “stranezza” di una manifestazione che volendosi mondiale si svolgerebbe in un Paese che si protegge dietro nuove frontiere.

Non si parla di sicurezza quando si fa solo propaganda. E’ propaganda legare Schenghen all’immigrazione perché se si abolisse il trattato, tutti gli sforzi, molto contrastati, per risolvere a livello europeo il problema dei rifugiati che sbarcano in Italia, verrebbero vanificati, i 50mila siriani transitati in Centrale sarebbero ancora tutti lì e il Paese sarebbe chiamato ad assisterli ed accoglierli da solo. Perché le frontiere, e Maroni da ex ministro dovrebbe ben saperlo, servono anche a questo.


Sacri confini

Non saranno stati 100mila i leghisti in piazza del Duomo. Ma erano, comunque, tanti, più di quanti non se ne fossero mai visti sul pratone di Pontida, molti più di quanti la sinistra “antagonista” abbia saputo (e potuto) opporgli.

La manifestazione della Lega in piazza del Duomo

La manifestazione della Lega in piazza del Duomo

Il contributo che a quella massa osannante Salvini, Bossi e Maroni hanno dato i militanti di Casa Pound non ha certo determinato il successo della prima, massiccia, rappresentazione in piazza di una nuova formazione nient’affatto “padana”, ma dichiaratamente nazionale, dichiaratamente anti-europea e, orgogliosamente populista.

Matteo Salvini, gliene va reso merito dal punto di vista dell’iniziativa politica, è riuscito a importare in Italia quel che in Europa già esprimono formazioni come il Front National, l’Ukip di Farange (ex alleato di Grillo, non della Lega), la Fpoe austriaca di Strache, il PVV olandese di Wilders, i “democratici” (fino a ieri nazisti) svedesi, togliendo l’iniziativa a quanto, nel rovinio della destra berlusconiana, poteva anche dirigersi verso il ribellismo di M5S che non eviterà all’Italia, come pure aveva garantito, l’affermarsi di una sua “Alba dorata”.

Nel fiume di slogan rovesciato sulla più che “indulgente” platea di piazza del Duomo, però, Salvini, tra le tante parole d’ordine ha anche lanciatoquella della revoca dei trattati di Shengen.

Marine Le Pen ne aveva fatto uno degli obiettivi della sua campagna elettorale e, dopo il suo clamoroso successo, il governo socialista francese ha cominciato a rimproverare all’Italia l’eccessiva “permeabilità” delle sue frontiere. Lo ha fatto anche il governo austriaco. Dalla Germania si vorrebbe che l’Italia rispettasse, almeno, il dettato degli accordi di Dublino sui richiedenti asilo. E già il Regno Unito (ancora tale malgrado l’impegno filo scozzese della Lega) di Schengen ha un’interpretazione piuttosto “elastica”.

L’”antieuropeo” Salvini si “piega” ai voleri dei paesi europei confinanti e collabora con loro alla chiusura delle nostre frontiere assicurando alle migliaia di profughi che sbarcano in Italia di restare “confinati” in un Paese a cui nulla vogliono chiedere (e che pochissimo avrebbe comunque da offrire loro) se non un improprio “diritto di passaggio” che, sulla carta, proprio l’Europa gli negherebbe.

Salvini si scopre “ultraeuropeista”: è’ un ottimo modo per peggiorare una situazione già difficile. Senza pensare alle conseguenze: non è politica, ma propaganda. Che, infatti, piace moltissimo.


Compagni di strada

Uno dei motivi del rifiuto del Movimento 5 Stelle a stringere alleanza con i “vecchi” partiti è la presenza nelle loro fila di inquisiti e condannati. L’argomento non è solidissimo, ma è comunque molto popolare.

Il leader dell'Ukip, Niegel Farange

Il leader dell’Ukip, Niegel Farange

Un’alleanza però i 5 Stelle l’hanno stretta in Europa, con Nigel Farange («simpatico e non razzista») validandola con una consultazione in rete. Una scelta obbligata per avere rappresentanza nel Parlamento europeo a dimostrazione che, in politica, il compromesso, a volte, è necessario. Almeno quando la posta in gioco è partecipare effettivamente ai lavori delle commissioni e incassare una ventina di milioni di finanziamenti, perché la politica costa.
L’esponente di maggior spicco dell’Efd (The Europe of Freedom and Democracy) è certamente Niegel Farange leader dell’Ukip inglese che, secondo la stampa britannica, sarebbe sotto indagine per aver incassato rimborsi irregolari per circa 200mila sterline e per questo rischierebbe perfino la condanna a un anno di carcere. «Una notizia di stampa tutta da verificare», obiettano i 5 Stelle scoprendosi improvvisamente garantisti e mettendo in dubbio l’autorevolezza di Times e Guardian.
C’è fra gli Efd anche Kristina Wunberg, dei Democratici svedesi (i cui militanti, fino al 1988, indossavano alle riunioni di partito l’uniforme nazista) che, secondo la stampa locale, sarebbe egualmente sotto inchiesta per aver spacciato una sua vacanza in Mozambico come impegno a favore di una organizzazione umanitaria. Inchiesta in corso, si vedrà.
Conclusa, invece, quella che riguardava un altro esponente di spicco di Efd, Roland Paksas, lituano di Ordine e Giustizia. Lo si direbbe un campione della “vecchia” politica visto che è stato premier e presidente. Carica che ha però perso, nel 2004, perché finito davvero sotto quell’impeachment che i 5 Stelle ad altri vorrebbero riservare. Era accusato di essersi fatto finanziare la campagna elettorale da un oligarca russo a sua volta in contatto con la mafia (quella russa, non quella di Palermo).
Molto più “simpatica” la ex Front National Joelle Guerpillon che, non odiando gli immigrati, Marine Le Pen voleva costringere ad abbandonare il seggio, ma che ha rifiutato di adeguarsi a quel vincolo di mandato che tanto piace a Grillo da imporlo ai suoi rappresentanti pena multe salatissime.
Ma non c’è da preoccuparsi, sono solo compagni di strada, solo 4 su 48, e i 5 Stelle sapranno tenere le distanze. Le dimissioni non le chiederanno, perché altrimenti il gruppo Efd non esisterebbe più. Un altro “prezzo” da pagare alla politica.


Proprietà transitiva

Era probabilmente inevitabile che la campagna elettorale appena conclusa finisse per centrarsi sui temi della competizione politica nazionale mettendo in ombra le scelte che i diversi schieramenti avrebbero poi fatto a Bruxelles.
Ora che però che quelle scelte diventano “trasparenti” gli elettori possono prenderne atto e valutare le relazioni che si vanno stabilendo a livello internazionale.

Una manifestazione dell'Ukip

Una manifestazione dell’Ukip

Il riferimento del Pd al gruppo socialista non è stato mai messo in dubbio, così come quello del Nuovo centrodestra ai Popolari gruppo cui partecipa anche Forza Italia rispetto alla quale sono piuttosto gli stessi Popolari a nutrire qualche sospetto come nei confronti degli ungheresi di Fidesz. E l’apertura di Berlusconi per un “restauro” della storica alleanza con la Lega che si trova alleata della destra antieuropea potrebbe alimentarli ulteriormente.
La “proprietà” transitiva non è un buono strumento di analisi politica, ma se la Lega, con l’assenso di Forza Italia, divenisse (come peraltro auspica Maroni) il perno di una nuova alleanza di centrodestra questa più che ai Popolari dovrebbe guardare al nuovo cartello formato attorno al il Front National di Marine Le Pen, il Pvv di Gert Wilders, il Vlaams belang fiammingo e l’Fpoe austriaco. All’interno del quale la Lega, peraltro, è il movimento che ha la minore rappresentanza dell’elettorato nazionale.
Un’alleanza che, comunque, Salvini aveva ampiamente annunciato in campagna elettorale fondandola più sullo slogan dell’uscita dall’Euro che sul nazionalismo esasperato degli “alleati” che, a prima vista, mal si coniuga con i secessionismi o federalismi “padani”.
Il Movimento 5 stelle, nella figura del suo leader Beppe Grillo, coltiva, viceversa, l’alleanza con l’Ukip di Nigel Farage che, se perfezionata, vedrebbe i suoi parlamentari collaborare con i danesi del Partito popolare, i tedeschi dell’Afd, i Veri finlandesi e, forse, i Democratici svedesi.
Così, M5S parteciperebbe a un gruppo, incassandone i finanziamenti e potendo partecipare ai lavori delle commissioni. Certamente, come annuncia Farange «potremmo divertirci a causare un sacco di guai a Bruxelles», il che non è esattamente un programma “costruttivo”. Grillo aggiunge: «Siamo ribelli per una causa e combatteremo col sorriso». Ma, sorriso a parte, che causa? Dal punto di vista degli elettori del M5S, si spera non quella di Farange. Se su Euro ed Europa la posizione di Ukip non è molto diversa da quella della Le Pen, dal punto di vista economico e sociale lo si dovrebbe definire un iper-liberista, categoria che i pentastellati hanno sempre detto di deprecare.
Grazie alla loro frequentazione del web, non faranno fatica ad attribuire a Farage i “meriti” di essere contro l’immigrazione, lo stato sociale, i sindacati, ma favorevole alla deregulation, all’aumento della spesa militare e al nucleare che non sembravano punti di forza della campagna elettorale grillina. Si troverebbero però ad accreditarli per la “proprietà transitiva”, facendo di un movimento «né di destra né di sinistra», un partito di ultra-destra.
Certo pur di avere rappresentanza si potrebbe “costruire” uno statuto del gruppo che lasciasse piena libertà ad ogni suo componente nella più moderna interpretazione della “parlamentocrazia” usando di quelle astuzie della politica che ai pentastellati dovrebbero fare orrore. Con il concreto rischio dell’irrilevanza.


La Lega agita le paure per la paura di scomparire

La Lega ha bisogno di voti e li cerca dove e come può. Alle Politiche del 2013, a livello nazionale, aveva ottenuto il 4,08%, sul filo dello sbarramento per ottenere rappresentanza al Parlamento europeo dove, nel 2009, era entrata con il 10,2% dei consensi.

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Per Matteo Salvini, in possesso di sondaggi che accreditano il movimento al 5,3%, non c’è problema. Anzi, il neo-segretario si attende al Nord un risultato del 13% ben superiore al deludente 9,2% spuntato solo un anno fa tra Piemonte, Lombardia e Veneto.

E’ una battaglia per la sopravvivenza quella ingaggiata dalla Lega che ancora deve trovare un equilibrio tra il suo pretendersi di lotta e il suo essere di governo. Matteo Salvini sfrutta ogni occasione per incendiare la piazza, promette referendum su tutto, dal campo rom all’euro. Roberto Maroni, e con lui Luca Zaia e Roberto Cota, i “governatori”, devono viceversa amministrare, rappresentanti “istituzionali” di uno Stato che ai propri elettori indicano come “nemico”. Molto dovendo dunque concedere alla demagogia da comizio elettorale che sempre più spesso tentano di trasformare in atto legislativo.

Di volta in volta, la Lega di governo si schiaccia su quella di lotta e viceversa. Lo si è apprezzato nei commenti che hanno seguito il referendum svizzero «contro l’immigrazione di massa». Maroni si è trovato, suo malgrado, a dover tutelare gli interessi di 60mila “frontalieri” presenti in territori che, da sempre, sono il bacino elettorale della Lega. L’unico modo per farlo è rinegoziare con la Svizzera il trattato bilaterale che li riguarda: è un trattato tra Stati, ma si può rivendicare, come con buone ragioni fa Maroni, di poter partecipare al negoziato nel suo ruolo “istituzionale”. Poi però bisogna anche “fare l’ammuina” ed ecco il Presidente rilanciare il “verbo” del segretario: «Anche da noi si faccia un referendum simile a quello che si è fatto in Svizzera». Maroni sa perfettamente che non si possono sottoporre a referendum i trattati internazionali e che proprio per quel referendum la Svizzera rischia la “ghigliottina” dell’Unione. Ma lo “trucca” come lo strumento per dare priorità al lavoro dei cittadini residenti di fronte a «clandestini extracomunitari che vengono in Italia senza permesso di lavoro». E Salvini spiega che «gli svizzeri difendono i loro interessi e fanno bene, come la Francia espelle i rom, gli inglesi fanno pagare la sanità agli stranieri e l’Australia allontana i barboni».

Un guazzabuglio di paure da agitare di fronte agli elettori nel nome dei nuovi alleati della Lega nella imminente battaglia anti-europea: il Front National di Marine Le Pen, il Fpoe austriaco, il Vlaams Belang belga, i democratici svedesi l’Ukip inglese, tutti accomunati nella difesa dei propri interessi locali e ben felici, se solo lo potessero, di sigillare ai lavoratori italiani anche le frontiere di Mentone e del Brennero. Un passo indietro di vent’anni che la Svizzera ha già mosso. Così che la mossa più brillante che Maroni ha partorito rientrando nella grisaglia del presidente è quella di chiedere l’istituzione lungo la fascia di confine una «zona franca per abbassare la pressione fiscale per le imprese che lì soffrono la concorrenza del Canton Ticino». La stessa che promette Cappellacci ai suoi elettori sardi e che reclama la Calabria. Altre “piccole patrie” ed altri concorrenti.

(la Repubblica Milano, 12 febbraio 2014)


L’arternativa del diavolo

Smentendo le previsioni della vigilia, gli elettori svizzeri, pur con un pugno di voti (ma a larga maggioranza in Canton Ticino), hanno votato «contro l’immigrazione di massa».

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Matteo Salvini con Roberto Maroni

Se ne compiace Matteo Salvini che, in perfetta sintonia con gli interlocutori europei che si è scelto (il Front National di Marine Le Pen, il Fpoe austriaco, il Vlaams Belang belga, i democratici svedesi e, sullo sfondo, anche l’Ukip inglese), twitta: «I cittadini svizzeri, con un voto di buon senso e di legittima difesa, hanno deciso lo stop all’immigrazione. Bene. Presto un referendum anche in Italia promosso dal Carroccio per difendere i diritti e il lavoro dei cittadini italiani». E assicura che «nessun frontaliere perderà il lavoro»

Non ne sembra altrettanto certo il “governatore” Roberto Maroni che, per tutelare gli interessi degli elettori lombardi (non solo di quelli che l’hanno votato), si prepara a chiedere con urgenza al Governo l’altrettanto improbabile istituzione di «una zona franca in Lombardia in cui la tassazione delle attività produttive sia allineata a quella della Svizzera».  E si preoccupa, giustamente, per la questione aperta sui ‘”ristorni”, la quota delle tasse pagate dai lavoratori frontalieri che tornano ai comuni italiani.

Più pragmaticamente, il portavoce dell’Unione europea Olivier Bailly annuncia che «L’Unione europea esaminerà le implicazioni di questa iniziativa sui rapporti complessivi fra Ue e Svizzera. Questo va contro il principio della libertà di movimento delle persone nell’Ue e in Svizzera».

L’alternativa sembra chiara: fare come la Svizzera oppure fare come l’Europa per tutelare gli interessi di chi svizzero non è. Una scelta cui, istituzionalmente, il presidente della Regione che più ha da temere degli sviluppi della situazione, non può sottrarsi anche se dispiacesse al segretario della “sua” Lega.