Civatiano per caso

I test politico-sociologico sono stati un’invenzione “estiva” di settimanali seri come l’Espresso che, vent’anni fa, concedeva ai suoi lettori, riflessivi e progressisti, un’incursione nei territori fino allora troppo poco frequentati degli “umori” pre-politici.

Pippo Civati con Matteo Renzi

Pippo Civati con Matteo Renzi

L’espediente per riconoscersi di sinistra-sinistra piuttosto che segretamente leghisti, andreottiani piuttosto che cripto-fascisti per poi discuterne senza troppa animazione sotto l’ombrellone, ha fatto il suo tempo. Ma è risorto, con i medesimi intenti, sul web.

Vi sarà certamente capitato di imbattervi nel sondaggio in rete che vi permette di stabilire se siate per indole personale più vicini alla Daniela Santanché  o a Pippo Civati.

Accettando la “provocazione” di Oltreuomo.com mi sono ritrovato “civatiano”. Non me ne dispiaccio, anche se non è esattamente la fotografia della mia attuale, e molto provvisoria, posizione politica. D’altronde per trasformarmi in “renziano” è bastato cambiare una sola risposta sulle otto che vengono proposte.

Mi compiaccio, naturalmente, di non essere finito fra i potenziali elettori di Grillo, Santanché, Casini o Salvini e di restare comunque nell’area di una inutilmente complicata e litigiosa “sinistra”. Resta la sensazione che nessun sondaggio possa davvero fotografare una realtà mutevole e complessa come quella che sollecita le opzioni politiche.

Certo, si tratta solo di un gioco da spiaggia, ma per renderlo davvero urticante si provi a proporre questa domanda secca. Quando dovrete votare sì o no nel referendum sulla riforma costituzionale, metterete la croce su “No” perché questa riforma fa schifo o sul “Si” perché fa abbastanza schifo ma non si può ricominciare tutto da capo? Un bel problema, si sia Civatiani e Renziani: questo non sarà un quesito da ombrellone, perché la risposta vale la legislatura.


Compagni di strada

Uno dei motivi del rifiuto del Movimento 5 Stelle a stringere alleanza con i “vecchi” partiti è la presenza nelle loro fila di inquisiti e condannati. L’argomento non è solidissimo, ma è comunque molto popolare.

Il leader dell'Ukip, Niegel Farange

Il leader dell’Ukip, Niegel Farange

Un’alleanza però i 5 Stelle l’hanno stretta in Europa, con Nigel Farange («simpatico e non razzista») validandola con una consultazione in rete. Una scelta obbligata per avere rappresentanza nel Parlamento europeo a dimostrazione che, in politica, il compromesso, a volte, è necessario. Almeno quando la posta in gioco è partecipare effettivamente ai lavori delle commissioni e incassare una ventina di milioni di finanziamenti, perché la politica costa.
L’esponente di maggior spicco dell’Efd (The Europe of Freedom and Democracy) è certamente Niegel Farange leader dell’Ukip inglese che, secondo la stampa britannica, sarebbe sotto indagine per aver incassato rimborsi irregolari per circa 200mila sterline e per questo rischierebbe perfino la condanna a un anno di carcere. «Una notizia di stampa tutta da verificare», obiettano i 5 Stelle scoprendosi improvvisamente garantisti e mettendo in dubbio l’autorevolezza di Times e Guardian.
C’è fra gli Efd anche Kristina Wunberg, dei Democratici svedesi (i cui militanti, fino al 1988, indossavano alle riunioni di partito l’uniforme nazista) che, secondo la stampa locale, sarebbe egualmente sotto inchiesta per aver spacciato una sua vacanza in Mozambico come impegno a favore di una organizzazione umanitaria. Inchiesta in corso, si vedrà.
Conclusa, invece, quella che riguardava un altro esponente di spicco di Efd, Roland Paksas, lituano di Ordine e Giustizia. Lo si direbbe un campione della “vecchia” politica visto che è stato premier e presidente. Carica che ha però perso, nel 2004, perché finito davvero sotto quell’impeachment che i 5 Stelle ad altri vorrebbero riservare. Era accusato di essersi fatto finanziare la campagna elettorale da un oligarca russo a sua volta in contatto con la mafia (quella russa, non quella di Palermo).
Molto più “simpatica” la ex Front National Joelle Guerpillon che, non odiando gli immigrati, Marine Le Pen voleva costringere ad abbandonare il seggio, ma che ha rifiutato di adeguarsi a quel vincolo di mandato che tanto piace a Grillo da imporlo ai suoi rappresentanti pena multe salatissime.
Ma non c’è da preoccuparsi, sono solo compagni di strada, solo 4 su 48, e i 5 Stelle sapranno tenere le distanze. Le dimissioni non le chiederanno, perché altrimenti il gruppo Efd non esisterebbe più. Un altro “prezzo” da pagare alla politica.


A spasso tra i titoli “storici”

«E’ un nuovo inizio» titolava ieri la Repubblica per presentare un giornale rinnovato e una nuova veste grafica. L’inizio è stato quasi quarant’anni fa, 14 gennaio 1976. Sul primo numero del quotidiano fondato e diretto da Eugenio Scalfari il titolo di apertura recitava: «L’incarico a Moro, ma la sfida è sull’economia»; Giorgio Bocca firmava il servizio «Innocenti, come si uccide una fabbrica», Bruno Corbi e Roberto Chiodi anticipavano ai primi lettori «Antimafia, un documento segreto» ed Edgardo Bartoli da Madrid raccontava «La nuova Spagna scende in piazza contro il regime». Titoli “urlati” perché quello che voleva essere, e sarebbe divenuto, un grande quotidiano di informazione aveva scelto il formato tabloid e su di esso aveva dovuto declinare i propri contenuti. Una, la più concreta e visibile, innovazione che la Repubblica introdusse nel panorama dell’informazione nazionale, cui tante altre ne seguirono fino a divenire quella “piattaforma” che comprende oggi l’edizione cartacea, quella su tablet, il sito internet.

Le prime pagine selezionate per “Next, la Repubblica degli innovatori”

Le prime pagine selezionate per “Next, la Repubblica degli innovatori”

Un lungo percorso che sarà possibile ripercorrere durante l’evento organizzato a Milano per “Next, la Repubblica degli innovatori”. Davanti al Piccolo Teatro, sede degli incontri ,sono stati infatti montati una cinquantina di pannelli per raccontare la storia del quotidiano attraverso le sue prime pagine. Una selezione estrema e, certamente, non esaustiva se solo si pensa che di prime pagine per ricostruire la storia e la cronaca di questi quasi quarant’anni bisognerebbe sfogliarne più di 13mila.
Il percorso è, naturalmente, cronologico a partire proprio da quel 14 gennaio 1976. Ma la vera suggestione è seguire lo sviluppo degli argomenti saltando nel tempo. Così quell’incarico a Moro ha il suo tragico sviluppo il 16 marzo del 1978: «Moro rapito dalle Brigate rosse». Fino all’epilogo del 10 maggio 1978: «L’assassinio di Moro». Provvisorio giacché oggi si parla di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta e si moltiplicano misteri e possibili depistaggi. E’ il racconto degli “anni di piombo” che ben si comprende tra «La rabbia studentesca esplode all’Università di Roma» (19 febbraio 1977) quando indiani metropolitani e autonomi cacciarono Luciano Lama dalla Sapienza e l’omicidio di Guido Rossa, 25 gennaio 1979: «Le Br sparano al Pci. Assassinato un sindacalista a Genova». Mentre si preparava l’ennesima strage: 3 agosto 1980: Un massacro. A Bologna cento morti e duecento feriti. C’è la prova: è stata una bomba».
Tragedie e misteri ma anche involontaria ironia come nella sfilata di titoli che provano a raccontare la politica italiana in un crescendo (o calando) “rossiniano”. Ci sono passaggi fondamentali: «Un socialista al Quirinale. Pertini eletto con 832 voti» (10 luglio 1978) e sarà il Presidente più amato dagli italiani a riportare a Roma la salma del più popolare e stimato segretario del Pci, Enrico Berlinguer («L’ultimo viaggio con Pertini», 12 giugno 1984) e ancora lui ad esultare il 13 luglio 1982 al fianco di Helmut Smith per «L’Italia campione del mondo».
La prima Repubblica scivola nella seconda: «Ha vinto Berlusconi», 29 marzo 1994; «Mani pulite su Berlusconi: inquisito per corruzione», 23 novembre 1994. Una vicenda non ancora conclusa e più volte interrotta. Come il 22 aprile 1996 «Ha vinto l’Ulivo». Ma già il 10 ottobre 1997 è «L’addio di Prodi, Bertinotti silura il governo D’Alema: elezioni. Berlusconi: larghe intese» e, esattamente un anno dopo, «La sinistra perde il governo». La replica il 20 maggio 2006: «Fiducia, Prodi supera l’esame», ma già il 7 dicembre 2007 è soltanto «Prodi si salva» e, il 25 gennaio 2008 si certifica «La sconfitta di Prodi». Finisce che il 15 aprile 2008 «L’Italia a Berlusconi e Bossi. Veltroni e Di Pietro al 38%» E l’omino di Altan commenta: «Chiedo l’intervento della protezione civile». Basteranno gli scandali, le papi girls le dieci domande di Beppe D’Avanzo perché, il 13 novembre 2011, sulla foto notturna di una berlina che lascia il Quirinale si titoli «Berlusconi lascia. Piazza in festa». A seguire, l’1 agosto 2013, «La condanna è definitiva» e, il 5 ottobre, «Fuori dal Senato». Poi ci saranno Monti, la crisi di governo, le primarie di Bersani e, il 26 febbraio 2013 «Boom di Grillo, Italia ingovernabile».
(la Repubblica Milano, 28 marzo 2014)


Contro-passato prossimo

Solo Matteo Salvini sembra prendere quasi sul serio sul serio l’ultima “provocazione” lanciata sul suo blog da Bebbe Grillo: «Recuperare l’identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie» riconoscendo che l’Italia post unitaria altro non è che«un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme».

L'Italia dopo la Pace di Lodi

L’Italia dopo la Pace di Lodi

La qualità dell’interlocutore molto racconta della bontà del progetto. Ma l’aspetto veramente sorprendente è vedere a corredo dell’invettiva di Grillo una mappa dell’Italia politica rinascimentale, diremmo attorno al 1454 quando i confini dei suoi stati vennero fissati dalla Pace di Lodi il cui grande tessitore fu, curiosamente, un fiorentino, Lorenzo de’ Medici, il Magnifico.

Le sue “astuzie” salvarono però l’Italia “reiventata” da Beppe Grillo per soli 40 anni: poi vennero le guerre e gli imperatori e il «Franza o Spagna purché se magna» che, con la successiva e autorevole partecipazione austriaca, durerà fino al 1866 . Una prospettiva di lungo periodo che gli improvvisati “separatisti” contemporanei dovrebbero tenere in qualche conto, perché anche allora in Europa c’era chi viaggiava un po’ più in fretta degli staterelli dei granducati e delle repubbliche.

Se invece si vuole solo fare spettacolo, si dovrebbe attendere con ansia un commento dal Vaticano: nell’invocato ritorno al passato remoto, Grillo è proprio sicuro che Francesco si troverebbe a suo agio nei panni del Papa Re? Perché, anche nell’Italia rinascimentale c’era lo Stato della Chiesa, vasto, pessimamente amministrato, ottusamente clericale (per evidenti ragioni “istituzionali”) nel quale il sommo Pontefice esercitava con buon diritto il suo potere temporale. Un “futuro” che non si augurerebbero certo neanche Oltretevere.

Anche alla storia controfattuale, alle geniali fantasie letterarie alla Contro-passato prossimo di Guido Morselli, quando si fa politica bisogna porre dei limiti, magari perdendo un po’ di tempo leggendo dei “noiosissimi” libri di storia.


I dolori del “giovane” Bobo

Mario Monti ha invitato Berlusconi, Bersani e Grillo all’incontro preparatorio del  prossimo Consiglio europeo a Bruxelles. Ma non Roberto Maroni. Il neo-governatore della Lombardia non l’ha presa bene: «Dobbiamo prendere atto che Monti, per discutere di Europa, non ha sentito il bisogno quello che aveva da dire il partito che guida le tre maggiori regioni del Nord. E’ evidente che in Europa le posizioni del Nord dovremo rappresentarle da soli».

La sede della Lega a Busto

La sede della Lega a Busto

Se la “ratio” di Monti è stata quella di confrontarsi con i leader delle coalizioni, Maroni ha poco da lamentarsi. A suo posto ci sarà Berlusconi (e non il presunto candidato premier Alfano) che pure ha ben rappresentato mentendo davanti al Parlamento, almeno secondo la ricostruzione fatta ieri in aula dalla pm dei minori Anna Maria Fiorillo nella sua ricostruzione dei fatti della notte del 27 giugno 2010 quando si aprì il “caso” Ruby.

Un Ministro degli Interni che mente davanti al Parlamento è un fatto grave, se confermato,  anche se la maggioranza di quel Parlamento non chiedeva che gli si dicesse altro,  preparandosi a votare l’incredibile “riconoscimento” di Ruby Rubacuori come nipote di Mubarak.

E’ uno dei prezzi politici che Maroni dovrà prepararsi a pagare per aver rinnovato il sodalizio con Silvio Berlusconi. Che chissà cosa potrà dire in suo nome, grazie all’autorevolezza che gli è internazionalmente riconosciuta, sulle politiche che l’Italia dovrà sviluppare in un’Europa dalla quale il Nord vorrebbe distinguersi.

Ma quell’accordo crea a Maroni anche problemi più vicini ed egualmente sgradevoli. La Prealpina segnala oggi che a Busto Arsizio i vertici provinciali e nazionali del Carroccio starebbero dando la caccia ai bossiani che alle recenti elezioni regionali avrebbero fatto votare, col voto disgiunto, il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli, tradendo Roberto Maroni. Casi limitati a guardare il risultato elettorale che pure segna come il centrodestra abbia perso 10mila voti dal 2008 quasi tutti del Pdl, mentre il centrosinistra ne ha guadagnati 2.000, 5.000 rispetto alle Regionali del 2010.

La sorda protesta leghista, senza applicarsi al voto amministrativo,  si potrebbe essere replicata in Veneto e questo dovrebbe preoccupare Maroni e il suo successore alla segreteria del movimento molto più che la mancata convocazione a Roma.


Le “prediche inutili” di Bauer

Riccardo Bauer, intellettuale antifascista e dirigente del Partito d’Azione, moriva trent’anni fa. Per ricordarlo la Società Umanitaria di cui fu presidente e “rifondatore” fino al 1969 ne raccoglie in volume un centinaio di scritti inediti presentandoli  sotto il titolo “Pesci in faccia”.

Riccardo Bauer all’Umanitaria nel 1967

Sono frammenti della storia d’Italia attraverso i quali si riconoscono i tratti della cronaca contemporanea: «i partiti di fatto si riducono ad apparati; le istituzioni si riempiono di amministratori amici; la burocrazia è in complesso di parentele; i concorsi sono un gioco di raccomandazioni; tutto si ottiene soltanto per conoscenze personali e per vie traverse piuttosto che per la schietta ed equa applicazione della legge; anzi, la legge stessa vien fatta o emendata su misura cominciando da quella elettorale per finire a quelle senza numero con cui si assegnano redditizie facoltà».

Questo scriveva Bauer il 4 luglio del 1953 e di questo leggiamo ancora dopo sessant’anni. Non c’è da stupirsi se, amaramente, solo pochi mesi dopo annotasse: «Poi ci si meraviglia che, nel segreto delle urne, il popolo depositi  il documento della sua protesta; che il popolo scalzo e affamato si orienti verso il più ingenuo estremismo, dopo aver sogguardato con occhio severo il lusso sfacciato di tutti i commentatori, faccendieri che nelle casse dello Stato attingono a piene mani a proprio esclusivo beneficio, sbandierando magari le glorie dell’iniziativa privata, cioè dell’iniziativa di privatizzare la ricchezza nazionale».

A scrivere è un sincero “riformista” che rifugge da ogni estremismo, ma che non coltiva alcuna indulgenza nei confronti dell’agire politico che, appunto, prende «a pesci in faccia», come spesso, troppo spesso, si merita.

Una lettura preziosa per chi pensa che la protesta nasca con i comizi di Beppe Grillo.

“Pesci in faccia” di Riccardo Bauer, Società Umanitaria e Coop Raccolto, pp. 256, 15 euro

Presentazioni pubbliche:

–    3 ottobre “Ripensare l’Italia”, Fondazione Corriere della Sera, Sala Buzzati, via Balzan 3 angolo via San Marco 21 ORE 18.00 Intervengono: Arturo Colombo, Enrico Decleva, Sergio Romano
Introduce: Piergaetano Marchetti  Ingresso libero con prenotazione obbligatoria: tel. 02 8738 7707

–   15 ottobre “Antonio Greppi e Riccardo Bauer a trent’anni dalla scomparsa”, Sala Facchinetti-Della Torre – ore 18.00 ingresso da via San Barnaba 48 Intervengono: Arturo Colombo, Alberto Martinelli, Carlo Tognoli